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CONCORSI: la solitudine dei numeri primi

Si parla molto negli ultimi tempi di concorsi, specie quelli pubblici che, invece di assegnare le persone giuste al posto giusto, mandano all'estero, oppure a spasso, i migliori ed insediano - mai verbo fu più adatto, perché costoro il più delle volte scaldano solo la loro sedia, invece di rispondere alle esigenze del pubblico – dicevamo, insediano i peggiori solo perché raccomandati.

I più impegnati a seguire questi concorsi sono i partiti, che se potessero assoggetterebbero alle loro mire clientelari perfino l'aria che respiriamo. Poi i baroni universitari e molti degli stessi membri delle Commissioni d'esame. Il danno è quello che conosciamo tutti. Asini che insegnano ai giovani universitari, funzionari che non sanno fare il loro lavoro, piuttosto lo intralciano ed alla fine si vedono ugualmente promossi ai livelli superiori, non per i propri meriti, ma per decisioni “politiche”.

Ma c'è un tratto, in tutta la storia di quest'abitudine tutta italiana, che non viene preso in considerazione ed è la solitudine dei membri delle Commissioni giudicatrici che si ostinano a fare onestamente il loro dovere.

L'accusa più lieve loro rivolta è scarso interesse ad assumere qualcuno. C'è poi quella di essere poco cresciuti; di non avere umanità verso gente che chiede solo un aiutino per lavorare; di essere burocrati e poco elastici. L'accusa più amara è di “non sapere stare al mondo”. E pensate che questo stillicidio va avanti per tutta la durata delle prove, in una lotta davvero impari, che colpisce chi per la propria correttezza istituzionale, dopo essere stato isolato e rampognato, ne esce con una grande demoralizzazione.

A questo ho pensato, leggendo il bellissimo libro di Paolo Giordano, “La solitudine dei numeri primi”, dove si mette in evidenza la insanabile condanna di tutti coloro che per il loro modo di essere non riescono a legarsi agli altri, essendo iscritta nel loro DNA la solitudine rispetto all'intero contesto delle relazioni.

Quando tutto è finito, rimane però la soddisfazione di aver fatto del bene non a chi si conosce e da cui poi essere ricambiati, ma a persone sconosciute, che però sapranno ricambiare, per la giustizia ottenuta, l'intera società.

 

 

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