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La città dei morti

Nel cuore della mia città ci sono viali e bellissime costruzioni, magari piccoline ma sufficienti per la bisogna, e vi entrano durante il giorno il barbiere e il ragazzo del bar, uno zingarello con la mamma, e tanti ragazzi che giocano alla palla sul prato o si rincorrono ai quattro cantoni. La sera poi è tutto un brulicare di luci. Vi sono lucine piccole e delicate e lampadari sfarzosi che sembrano fatti apposta per trattenimenti danzanti. È davvero piacevole affacciarsi ai balconi e guardare questo palpitare di “vita”, proprio di fronte alle nostra case.

E non ha importanza che questo luogo bellissimo si chiami cimitero. Vicino vi passa una amplissima strada che, con un lungo circuito, avvolge in un amplesso questa città dei morti ed è la più bella e, oserei dire, la più panoramica di tutte le vie della nostra città. Ovunque dovrebbero fare com'è stato fatto da noi, dove i morti non sono veramente morti, perché dimorano tranquillamente in mezzo a tutti gli altri uomini.

Del resto non dobbiamo meravigliarci di questo, giacché una volta i morti venivano tenuti in casa. Ad esempio, presso i Celti, il culto dei morti aveva il suo apice nel focolare domestico, attorno al quale essi venivano sepolti per continuare, in un certo modo, a vivere ed influenzare la vita dei propri cari. Più recentemente, nel tentativo di superare la finitudine della vita umana, gli Etruschi, nella certezza che il defunto sopravvivesse nel luogo stesso dove il corpo veniva sepolto, formarono delle vere e proprie città del morti, spesso con tombe a imitazione delle case.

Mentre l'editto napoleonico proibiva di seppellire i morti in cimiteri all'interno delle città, Foscolo affermava che le tombe danno l'illusione ai vivi di stare vicino a chi non c'è più, diventano una sorgente di fede e virtù, e rendono la memoria dei defunti immortale. Insomma, diceva lui, occorre stabilire un rapporto tra i viventi e gli estinti, tra i quali si crea una “corrispondenza di amorosi sensi”, da cui sono esclusi, e giustamente, coloro che non lasciano dietro di sé alcuna eredità di affetti.

Esaltiamo, per una volta, le finalità romantiche dei nostri amministratori, i quali hanno creato un abbraccio universale che invincibilmente lega e legherà gli ancora temporaneamente vivi a quelli, filosoficamente s'intende, non completamente morti.

Una sola domanda non trova risposta a tutto questo: quando, tra quarant'anni, metà della popolazione della nostra città non sarà più temporaneamente viva, sebbene, sempre filosoficamente, non completamente morta, dove si troverà lo spazio per costruire altre tombe?

 

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