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INTERVISTA AD ANTONIO PICCININNO

ULTIMO CANTORE DI CARPINO

 

Carpino abita una collina vista lago e da lì ama perdersi a guardare lontano le vaste distese di uliveti. Arrivo con mia moglie in auto e ci fermiamo davanti all’ampia balconata del bar della piazza centrale, dove Alessandro Sinigagliese, un cordiale giovanottone dell’Associazione Culturale Carpino Folk Festival, ha stabilito il luogo dell’incontro.
E lì era ad attendermi Antonio Piccininno, l’ultimo erede dei cantori di Carpino. Appena mi vede, con tanto di block notes e registratore tra le mani, solleva dalla sedia le sue gambe lunghissime, per  mostrare una gentilezza nel volto e nei modi che riesce a metterci subito a nostro agio. Gli dico cosa intendo fare e lui ci propone di appartarci su un gradone che percorre tutto un lato di quella sorta di terrazza antistante il bar. Ma io gli chiedo di andare più in là, dove può far da corona una bella rampicante fiorita. Però, prima di sederci gli scatto qualche foto. E lui non si fa pregare, mostrandosi già abituato a simili approcci. Quindi pigio sul tasto del registratore per avviare l’intervista.

Senti Antonio, so che di solito ti rivolgono domande riguardanti i canti che tu porti in giro per il mondo. Io invece vorrei prima sapere qualcosa della tua infanzia.

Devi sapere che io sono nato il 1916 e a due anni ho perso la mamma ed il papà, morti per l’influenza spagnola. Così, rimasto orfano, fui affidato ai miei nonni materni. Ma i tempi di allora erano cattivi, c’era la fame, così a otto anni mi hanno mandato al bosco a guardare le pecore. Qui vi erano delle persone adulte che si tramandavano questi canti popolari. Erano solo canti orali ed io, non avendo altro da fare, passavo il tempo a cantarli, mentre guardavo le pecore. Quando poi sono diventato grandicello, ho lasciato il mestiere del pastore e mi sono dedicato alla coltura dei campi…

Come contadino o bracciante?

Come bracciante, perciò non stavo sempre in un posto, ma giravo per le campagne. Lì, a sera, si usava che quando un ragazzo s’innamorava di una ragazza faceva portare la serenata. Quindi quasi ogni sera venivo chiamato, ora per portare la serenata ad una ragazza, ora ad un’altra e siccome cantavo bene le richieste non mancavano. Mi chiamavano non solo i giovanotti in amore, ma anche ai matrimoni, al carnevale, durante la raccolta delle ulive, del grano, secondo le usanze della nostra zona. Così ci divertivamo.

A parte questo, c’erano allora nelle campagne di Carpino lotte bracciantili per la terra, per migliori salari, per migliorare le vostre condizioni di lavoro?

Eh, le cose allora non erano belle. Chi aveva qualche pezzo di terreno se lo teneva stretto, ma non dava molti soldi agli operai. Non avevamo luce, né acqua, che ci toccava prendere lontano in qualche campagna dov’e c’era.

Quindi voi non partecipavate alle grandi lotte per la terra, non conoscevate, ad esempio Giuseppe Di Vittorio?

No, no. Sentivamo parlare del suo impegno per i braccianti, ma da queste parti non si è visto.

A questo proposito, siccome Matteo Salvatore s’interessava nei suoi canti popolari soprattutto della situazione di oppressione nelle campagne e nei piccoli borghi rurali, mi vuoi spiegare quali furono i tuoi rapporti con lui.

 

Io ho conosciuto Matteo Salvatore tramite Teresa De Sio. Abbiamo fatto pure dei filmati insieme e l’anno scorso c’è stata una serata in suo onore ad Apricena, a quattro anni dalla morte. Abbiamo cantato al teatro davanti a sua figlia e a tutta la popolazione. Ho cantato con lui non moltissime volte, in tutto una quindicina. Lui ha il suo repertorio, io il mio, che è prevalentemente d’amore.

Insomma i canti d’amore ti hanno accompagnato per tutta la vita?

Non per tutta la vita. Questi canti li abbiamo portati avanti fino all’inizio dell’ultima guerra mondiale. Poi gli uomini sono andati tutti via. Dopo la guerra ci siamo ritrovati col grammofono, la radio e più tardi anche con la televisione, per cui i nostri canti sono stati messi da parte. Ognuno si è lanciato sulla modernità e quindi il ricordo dei canti e delle povere musiche spontanee si è perso. Però io ed altri abbiamo sempre tenuta attiva la fiamma dell’antichità, fino a che non è venuto a trovarci un giorno un uomo di spettacolo di Bologna che ci ha scoperto. Poi sono venuti Eugenio Bennato, Teresa De Sio e De Simone di Napoli e tutti sono stati interessati ai nostri canti, si sono presi i testi, i nostri nomi, ci hanno fatto le foto e se ne sono andati.

Così è arrivato il successo…

Macchè. Per alcuni anni non li abbiamo più visti né sentiti. Dopo sette otto anni ci hanno chiamati e siamo andati a Milano. Dopo Milano siamo andati a Napoli, al teatro “De Filippo”. E finalmente si è rifatto vivo anche Eugenio Bennato e quando lo abbiamo visto lo abbiamo rimproverato perché dopo averci promesso tanto non si era fatto più vedere. Lui si è scusato e ci ha avvertiti che voleva portarci con lui a Roma. E per diverse volte abbiamo fatto su e giù da Carpino a Napoli e a Roma per esibirci. In questo via vai la gente ha cominciato a conoscerci ed hanno preso ad invitarci con Bennato o senza Bennato. Poi ci siamo allargati e siamo usciti anche fuori dall’Italia. Siamo stati a Gerusalemme, siamo stati a Nazareth, insomma, in tutti i posti più belli del mondo. Abbiamo anche cantato a Tel Aviv, a Berlino, a Norinberga, a Bruxelles, a Barcellona, a Dubrovnik ed in moltissime città d’Italia. Insomma abbiamo passato un anno intero cantando.

Naturalmente in queste tournee non andavi da solo?

Andavo con i miei amici cantori, Andrea Sacco, Antonio Maccarone e qualche altro. Poi i compagni miei si sono fatti più anziani e allora si sono avvicinati dei giovani che volevano imparare come si canta per portare avanti gli antichi canti di Carpino. Ed ora è da una quindicina d’anni che giro l’Italia con questi giovani, tant’è vero che il 19 aprile passato siamo stati a Torino con i ragazzi a ritirare un premio, così cerchiamo ancora di portare avanti la nostra tradizione...

Senti Antonio, per tenere a mente i canti di Carpino hai dovuti scriverli. Quindi sei andato a scuola.

No, io a scuola non ci sono andato quando era il tempo, perché impegnato con le pecore e la vita di campagna. Però quando mi sono fatto grande sono andato qualche anno alla scuola serale. Ma già quando guardavo le pecore tenevo la penna ed il quaderno. Le persone mi dicevano di scrivere qualcosa, ad esempio scrivi Carpino, scrivi Foggia ed io scrivevo qualunque cosa mi dicevano e poi l’imparavo, così piano piano ho imparato a fare qualche cosa, non un granché, ma qualche cosa, le cose mie le so fare…

Allora in un primo momento ti sei avvalso del ricordo orale, poi invece piano piano ti sei esercitato…

Veramente tren’anni fa venne da Monte Sant’Angelo il professore Francesco Nasuti, che si occupa di teatro, e mi disse: “Antonio visto che sei abbastanza appassionato di canti antichi, perché non fai la raccolta di tutti i canti paesani”. Così io mi sono messo in giro per il paese e agli uomini più anziani domandavo: “Sai qualche canzone paesana?”, riuscendo a raccogliere due o trecento canzoni, che ho passato al professore Nasuti e lui ne ha fatto un libro.

C’è qualche canto che hai composto tu?

No, io sono solo cantante.

Nei tuoi canti spesso è presente il tema della donna…

 

Sì, è vero. Ma i canti popolari sono soprattutto dedicati alla donna. I nostri canti sono canti d’amore, che il giovane rivolge alla donna di cui è innamorato.

E com’era, ai tuoi tempi, il rapporto tra uomo e donna?

Eh, non era come oggi. Innanzitutto ai miei tempi l’uomo non la poteva vedere la propria ragazza realmente. La vedeva solo da lontano, quando quella andava in chiesa; qualche volta la vedeva un po’ di contrabbando, ma raramente perché se questo accadeva si riempiva il paese e per non farsi parlare ognuno si manteneva, dovendo conservare l’onestà fino al matrimonio. Io per esempio mi sono sposato a vent’anni e mia moglie ne aveva diciotto. Ho conosciuto mia moglie solo dopo il matrimonio. Prima non ci ho mai parlato.

Ma davvero?

Sì, le ho fatto solo la dichiarazione d’amore.

Ah, almeno quella l’hai rivolta a lei?

No, a lei no. L’ho fatta ad una zia, che abitava lì vicino, quella ha portato l’ambasciata, mi ha dato la risposta di sì e poi abbiamo preso a scriverci, sempre tramite la zia che dava la lettera alla mia fidanzata che mi rispondeva tramite questa donna….

Eh, però qualche contatto pure sfuggiva…

No, no, no, no, niente! Non ci ho mai parlato, solo la vedevo in chiesa o quando andava in campagna, perché tutti allora lavoravano, anche le donne. La mattina qui era una fiera, uomini e animali tutti in movimento per dirigersi alla campagna. In città rimanevano solo i cucitori, i barbieri e qualche negoziante. Il resto del paese, tutto in campagna. Quando poi ci siamo sposati, dopo la festa ci hanno portato alla casa nuova, sono venuti i compagni miei per la serenata e, quando sono andati via chiudendo la porta, io ci ho tirato giù la sbarra. Allora sono andato da lei, che stava pensierosa perché si vergognava, e presi ad accarezzarla, poi piano piano cominciai a toglierle qualche indumento da dosso e così, una volta spogliata, abbiamo fatto l’amore.

Ah!

Embè!

   Antonio ho visto che suoni benissimo le nacchere. Chi ti ha insegnato?

Le nacchere sono uno strumento che si è sempre suonato. Io non saprei cantare senza le nacchere, perché quelle danno il tono al canto. Però la musica non me l’ha insegnata nessuno. Io sono un cantore con nacchere ed è l’uso che mi ha insegnato a suonarle; so anche fare qualcosa con la chitarra battente, però non sono bravo.

   Hai cantato parecchie volte con Eugenio Bennato?

Eh, ho cantato tante volte. Ultimamente ho cantato insieme a lui a San Vito dei Normanni. E ho cantato pure con Teresa De Sio, parecchie volte. Purtroppo non posso cantare più con i miei vecchi amici cantori. Tutti deceduti. È morto prima Andrea Sacco, poi Maccarone, l’anno scorso.

 Essere rimasto l’ultimo dei cantori di Carpino ti fa ricordare con nostalgia i tempi passati?

 

Sì, mi dispiace per i compagni che non ci sono. Ma io non mi faccio prendere dalla nostalgia perché ho sempre voglia di cantare, se fosse possibile vorrei cantare tutte le sere, quello è il mio divertimento.

Però Antonio, ora occorre lanciare nei canti anche qualche giovane bravo di Carpino.

Mo’ ti voglio dire una cosa. I giovani amano sentire i canti popolari, ma non amano impegnarsi molto in questo lavoro. Qualche donna invece si sente cantare bene. Io sono anche stato chiamato parecchie volte a scuola per insegnare qualcosa ai ragazzi e farli appassionare ai canti della tradizione. Il mio desiderio è che i giovani portino avanti i nostri canti popolari.

Un’ultima domanda. La bellissima Ninna Nanna di Carpino, secondo te, com’è nata?

Ascolta. A Carpino non tutte le madri avevano una culla. Allora chi non ce l’aveva, usava una mezza sedia, si metteva il figlio in braccio e cantava la ninna nanna, facendo avanti e dietro sulle gambette di legno fino ad addormentare il bambino. Questa ninna nanna io la canto sempre, l’ho imparata da bambino e non manco mai, mai, mai di cantarla.

Quando te la sento cantare mi faccio prendere dalla commozione…

E pure io. Mentre la canto devo stare attento giacché sono in pubblico e se non mi trattengo mi scappa il pianto… perché mi ricordo che sono vissuto senza la mamma e a me la ninna nanna non me l’ha mai cantata nessuno.     

Finisce qui, con il fazzoletto che raccoglie le lacrime di un uomo buono, la mia intervista ad Antonio Piccininno, 95 anni, ultimo cantore di Carpino, memoria storica della tradizione popolare. Sto per augurargli lunga vita fino a cent’anni, ma per lui non posso farlo e debbo allungarla almeno fino a centocinquanta. Con la fibra e la lucidità che si ritrova potrebbe anche arrivarci.

 

 

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