Raggruppamenti di individui uniti da comuni ideali, col fine di determinare gli indirizzi generali dello Stato. Sono questo i partiti. Ma di essi si danno diverse definizioni. Da associazioni a tutela degli interessi degli associati, di Max Weber; a luogo d'incontro-scontro tra interessi differenti, di B. Croce; fino alla concezione comunista, che voleva il partito formato da “rivoluzionari di professione”, e la rappresentazione gramsciana di partito quale moderno principe, intellettuale collettivo teso all’egemonia sulla società. Con la caduta del fascismo e la nascita del parlamentarismo, i partiti sono stati veri fari della trasformazione democratica e civile del nostro Paese, soprattutto quello cattolico ed il comunista. I dirigenti politici di tali partiti esercitarono una vera e propria influenza educativa e moderatrice di ampie masse sociali, non ancora adattate all’esercizio della democrazia. Le sezioni, da parte loro, hanno rappresentato una palestra di democrazia dal basso, capace di orientare le scelte dei loro dirigenti e della pubblica amministrazione. Oggi sembra che tutto questo sia scomparso e si voglia di quel passato glorioso perfino sopprimere la memoria. Negli ultimi decenni, il potere d’intervento e di decisione dei partiti è andato crescendo ed ha riguardato non soltanto la sfera più strettamente politica, ma tutti i gangli della vita sociale e culturale del Paese. Sono contestualmente cresciuti i loro apparati, a discapito della libera circolazione delle idee e della democrazia interna; com’è aumentata la necessità di sempre maggiore bisogno di finanze, con il conseguente drenaggio, lecito ed illecito, di denaro pubblico e privato. Una nuova classe politica rampante considera gli uomini politici del passato degli artigiani o, peggio, dei dilettanti che ponevano alla base del loro servizio al popolo l’etica e la fede nel cambiamento, nonché il disinteresse per gli affari. Ferri vecchi del passato, acqua che non scorre più sotto i ponti.